il corsivo
MANTENERE GLI ENTI E ATTUARE LA RIFORMA
“Cu nuiu pozzu, cu mugghierima pozzu”. Il vecchio brocardo tratto dalla cultura popolare segnata, in alcuni tratti, da un machismo d’accatto, si plasma, alla perfezione, all’attuale momento politico. “Crisi” un tempo, era il vocabolo che più di ogni altro spiegava i balzi umorali delle donne ultra 45enni. Ma anche degli uomini di pari età alle prese con una nuova primavera… Oggi, la “Crisi” (rigorosamente con la C maiuscola) rappresenta, invece, l’appiglio che consente l’applicazione di un vizietto culturale italico: duri con i deboli e flessibili con i forti. La paventata abolizione delle piccole province risponde a questa logica. E così, gli sprechi nella pubblica amministrazione, rimangono, più o meno, intatti. Ci si chiede, a che servono mille parlamentari? E i trecento miliardi di enti inutili? E i nove milioni di corsi universitari, molti dei quali seguiti da due o tre alunni? L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma il rischio di dovere ricorre a tavor e valium (a seconda del carattere) sarebbe troppo alto. La verità è che gli italiani non brillano per coraggio e non amano i decisionisti. Bettino Craxi, leader socialista degli anni Ottanta e statista con gli attributi, capì che l’Italia stava prendendo una brutta piega e parlò, prima di tutti, di “Grande riforma”. L’idea non era limitata a una riforma elettorale di natura presidenzialista. Lo statista socialista, invece, intuì che esiste una stretta correlazione tra la disorganizzazione dello Stato e la sua crisi economica, finanziaria, industriale, morale e politica. Il risanamento e la prospettiva di crescita, richiedevano (allora come oggi) un intervento necessario a modernizzare l’organizzazione dello Stato, rendendolo più agile e funzionante. Bettino Craxi, dunque, fu un profeta laico. E quando la voce dei profeti viene ignorata, s’impongono i modelli di Sodoma e Gomorra; più la prima che la seconda! La questione-province è tuttora legata alla visione riformatrice craxiana. L’abolizione di quella Vibonese, senza un’adeguata riforma generale degli enti locali, avrebbe gli stessi effetti di un cazzotto di Mike Tyson a un giovanotto che frequenta il primo liceo classico. L’asserito risparmio, per le finanze dello Stato, del tutto irrisorio. Ad onor del vero, bisogna anche dire che Vibo con le sue scriteriate scelte del passato (infiniti co.co.co e quant’altro, utili solo a consolidare privilegi e posizioni di rendita elettorale), con un numero di dipendenti spropositato rispetto alle reali esigenze, con la modesta fantasia politica di molti suoi rappresentanti ha fatto di tutto per essere soppressa. Ma l’abolizione della Provincia, se non accompagnata da alcuna riforma istituzionale, sarà foriera di un arretramento economico e sociale del suo territorio. Il dibattito sulle province, però, deve rimanere aperto e così quello della “Grande riforma” (di craxiana memoria). In linea di massima, oltre ottomila comuni e oltre cento province, costituiscono ormai un lusso che il Belpaese non può più permettersi. In un’immediata prospettiva si può anche ragionare sull’abolizione delle province (di tutte le province) sulla base di almeno due presupposti generali: il primo, che la loro cancellazione si limiti al livello politico-rappresentativo e non implichi, invece, la soppressione di tutti gli organismi dello Stato; il secondo, che si attui una contestuale fusione dei comuni (soglia minima, cinque mila abitanti). La soluzione, per Vibo, non è un improbabile ampliamento dei suoi confini. La via maestra rimane la Politica (pure qui, P rigorosamente maiuscola). Anche nel caso in cui si dovesse abolire l’ente provincia Vibo Valentia, occorrerà aprire nuovi fronti di progettualità per superare le sabbie mobili della mediocrità e dell’inconcludenza che da troppo tempo segnano la vita politica provinciale… e non solo!
Corrado L’Andolina
Pubblicato su Calabria Ora il 9 giugno 2010, p. 32