Storia dei fratelli rupe

"... Una povera vestita di stracci, canuta e fiera, si riconosce nella melanconia dell'esule, ch'essa colora della sua solenne e schiva povertà. Povertà, dramma di una terra che dagli aborigeni venne chiamata ausonia per l'abbondanza di ogni cosa utile alla vita mortale, e che ora manca di tutto. Manca di acqua, di strade, di scuole, di case, di vestiti, di medicine, di ospedali, di fabbriche, di macchine, di utensili, di concimi, di ponti, di sistemazioni idriche e montane. Manca di tutto, non sa come difendersi dal freddo, non sa come difendersi dalla fame, non sa come proteggersi dai diluvi del cielo e dalle collere del mare, abbandonata a se stessa, al disfacimento della più intima forza vitale, spettatrice amara della propria disgregazione geologica e del proprio ritardo sociale. Manca di tutto la Calabria, perchè chi, dall'antichità ad oggi, la ridusse in suo potere, ne ostacolò lo sviluppo creativo nelle cose e negli spiriti; s' impose con la violenza, dal di fuori, secondo i successi delle invasioni, le scorrerie piratesche e i trapassi delle dinastie; ne succhiò il sangue migliore, aggravando il suo parassitismo col disprezzo di casta; non fece mai corpo con essa ignorandone il dolore. La Calabria si difese dalla pressione feudale, trovando, nel giogo della miseria una specie di ascetica disperazione, come di chi sia riuscito a coinvolgere in essa il giudizio morale e storico sull'Oppressione, e trarne come conseguenza la speranza del riscatto. Manca di tutto la Calabria, eppure nell'incontrarla, non le sai mettere a paragone, per varietà, bellezza e maestà, altra terra al mondo. C'è in essa qualche cosa che continua a passare sul tempo come acqua sul marmo, legando l'antichità della terra alla giovinezza dell'universo. La storia in Calabria si è tradotta in silenzio, un silenzio da cui affiorano, col loro consolante linguaggio umano, quelle vigne che si pongono con le loro mammelle bionde e nere sulle rive del mare, quelle pinete che salgono le montagne con i loro aromi, quegli ulivi che svettano sul cuore della Calabria col loro vecchio e tiepido argento, quegli aranceti che accendono le loro lampade gialle contro il turchino delle acque, tra quinte altissime di eucalipti e di querce. Non affiorano, da quel silenzio, le rovine illustri della storia. In nessun luogo come in Calabria, i monumenti dell'antiche età, delle antiche civiltà han trovato un più distaccato scenario per affermare la loro superfluità, la loro vanità; in nessun luogo come in Calabria han tradotto in cosmica indifferenza il bisogno di immortalità degli uomini. La Via dei Sepolcri non termina con le immortali vestigia di Pesto. Essa séguita per tutto il litorale bruzio dei due mari, parlando all'anima attonita delle supreme testimonianze lasciate dagli uomini nel loro frettoloso passaggio. Séguita ma quanto diversa. La terra, o copre col suo corpo le mura, le colonne, i templi, le necropoli, si che su loro bruca la pecora, o i pochi avanzi che, come le alberature di una nave ancora accennano da naufragio verde, essa guarda con occhio fatale e ammonitore. Qualche tempietto, qualche statua mutilata, qualche tomba, qualche tavoletta votiva, qualche colonna, qualche medaglia: ecco quel che rimane per la fame degli storici e per la curiosità della gente. Nulla di magnifico, di vistoso, che mandi in visibilio il turista nostrale o forestiero, abbagliato dalle splendide rovine di Pesto, di Siracusa, di Agrigento. Per chi non sa, la Calabria pare senza storia. Ma, per chi sa, quale malinconia. Resta la Storia come un Genio nascosto nell'aria che si respira, smorza la nostra furia di vita con lo struggente ricordo della vita che fu. Il mare è per la Calabria lo specchio d'abisso del suo millenario destino. Un mare rugoso maestoso che ha visto i secoli frangersi contro le sue inaccessibili scogliere, le strade succedersi ininterrotte, senza nulla perdere della sua primordiale bellezza, della sua splendente canizie. A qualunque approdo lo spingano gli eventi, Tristano è certo di trovare davanti alla solennità del suo mare, un mare che ha una sua criniera di cometa, in qualunque ora della sua vita, i migliori entusiasmi, le più sopite energie. Se il suo occhio fanciullo non avesse abbracciato quell'onda con trepido amore; se il suo giovane corpo non si fosse irrobustito a quella salsedine; se la sua anima, bisognosa di incidere un suo segno nel mondo, non avesse sentito, quasi per un'emanazione da creatore a creatura, nelle tempeste di quel mare, una arcana potenza capace di travolgere ogni ostacolo, egli non sarebbe quello che è: sarebbe cieco e servo. Ed il mare è sempre lo stesso. Gli occhi di Tristano non lo vedono diverso da come lo videro Ulisse ed Oreste, Glauco e Scilla. Mutano i pellegrini appassionati, ma il mare, cui essi confidano i più alti sogni, le più alte ebbrezze di conoscenza, è quello di sempre. E' nato senza memoria, è un volto dell'eternità. esso sarà, quando la terra diventerà una fiaccola spenta nello spazio fumoso..."

STORIA DEI FRATELLI RUPE di Leonida Repaci (Viareggio 07/11/1931, pp. 94-95).