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Intervento del Governatore G. Chiaravalloti |
LA CALABRIA
Mi capita, per ragioni connesse
al mio incarico istituzionale, di osservare la Calabria dall'alto. La guardo
dal finestrino di un aereo. Mi appare fragile, sotto il bagliore accecante
del sole, una striscia che sembra animarsi per sfuggire alla rincorsa dei
due mari sempre sul punto di soverchiarla e di travolgerla senza mai riuscirci:
un giuoco a rimpiattino che si ripete da millenni. E lei, la Calabria, sempre
là, un po' sorniona, un po' triste, un po' orgogliosa, con i suoi campi
di grano del Catanzarese, gli uliveti del Vibonese e del Lametino, gli agrumeti
della piana di Gioia Tauro e di Rosario mentre le pinete della Sila e delle
Serre e le abetaie dell'Aspromonte e si protendono ad abbracciare il mare,
quasi in una muta preghiera che impetra calma e attesa.
Sì! La Calabria! Tra cielo e mare, boschi e scogliere, nuvole e sole,
alberi e sottobosco, dove la presenza dell'uomo, se la guardi da quassù,
quasi non si percepisce perché nessuna testimonianza del suo ingegno
affiora dalla quieta malinconia che l'avvolge e capisci perché ti affascinano
il torreggiare dell'ultimo sicomoro e ti commuove l'abbondante euforbia che
spunta dappertutto, i cespugli spontanei di ginestra, di radica, di liquirizia
e l'agave prepotente che si erge sul campo di trifoglio
La sensazione
che desta l'imperturbabilità di questo luogo italiano è che
la Storia non l'abbia visitato o che sia passata troppo in fretta per lasciare
tracce evidenti.
Ma è solo un'impressione. Se ti metti a riflettere e a guardarla dal
di dentro ti accorgi subito, con stupore, che ovunque, anche nei suoi angoli
remoti, si celano le rovine illustri della sua antica e tumultuosa storia,
le vestigia delle civiltà che, intrecciandosi, contrastandosi e, infine,
fondendosi, ne delineano una straordinaria unità e identità
culturale.
Torri, castelli, palazzi, colonne, templi, necropoli, intere città
dell'età ellenistica sono là a testimoniare la presenza di un
patrimonio artistico e culturale che appare come imprigionato nel vigore della
sua natura indomita, talora mortificato e quasi umiliato dalla noncuranza
con cui i suoi abitanti lo custodiscono.
La grande contraddizione è qui. Perché qui come in nessun altro
posto del mondo vedi il sogno dell'immortalità racchiuso nelle opere
dell'arte e della natura, qui senti che davvero tutto è incominciato
e che qui l'Occidente ha tracciato per la prima volta i suoi schemi esistenziali,
da Platone in poi. Eppure qui, come in nessun altro posto, percepisci l'inadeguatezza
dello sfondo scenico prodotto dall'uomo.
E ti accorgi che hai bisogno di tempo per infrangere l'oscurità che
vela le bellezze artistiche, storiche, ambientali e archeologiche, perché
la Calabria ti si svela lentamente, con parsimonia, quasi con avarizia e non
accetta la moda del turista frettoloso e superficiale, che cerca solo il sublime
visibile, i Bronzi di Riace, la grande cattedrale o le gigantesche mura dell'età
magnogreca, che pure non mancano. Ti chiede di soffermarti a osservare con
la mente intenta e non soltanto con gli occhi e ti domanda anche una conoscenza
della storia perché se non sai come essa, la storia, si dipana dall'età
della pietra,alle suggestioni del mito fino al tuo tempo e soprattutto quanto
siano forti e profonde le sue radici, non comprenderai quanto l'Occidente
debba alla Calabria.
Te ne rendi conto se fai una visita alle Grotte di S. Angelo, nei pressi di
Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza. Qui, tra gallerie carsiche ingombre
di stalattiti ed una fitta rete di viottoli che collegano cave di gesso alle
falde della roccia detta di S.Marco, trovi tracce di attività umane
dell'era neolitica nei frammenti di suppellettili ottenute lavorando la pietra.
Se ti spingi un po' più a Sud incontri Sibari e ancora più giù
Crotone: due perle create dagli Enotri, che qui arrivarono dal Peloponneso
settecento anni prima della nascita di Cristo. E se molto si sa di Sibari
pochi ricordano che Crotone era ritenuta da Tito Livio più bella di
Agrigento, con i suoi 18 chilometri di perimetro urbano, la struttura urbana
poderosa ed al tempo stesso elegante. Certo, il tempo e la furia del mare
hanno disperso quasi tutti i tesori di Crotone: del fascino dell'antica città
restano la colonna di Capo Colonna, splendido residuo dell'imponente tempio
dorico di Hera Lacinia e i numerosi reperti, portati alla luce da recenti
scavi e conservati nel bellissimo Museo Archeologico Statale, che confermano
l'antica magnificenza della città di Pitagora.
La Calabria greca non è solo Sibari e Crotone. Bisognerebbe scendere
ancora più a Sud fino a Locri, a Bova Marina a Reggio per rendersi
conto della forte unità storica impressa alla Calabria dalla cultura
greca e quanto quella tradizione abbia contribuito alla sopravvivenza ed alla
diffusione della civiltà occidentale. E invece quella tradizione è
sopravvissuta alle terribili sequele di occupazioni, invasioni, rivolte, guerre,
turbolenze di ogni genere, comprese quelle naturali delle inondazioni e dei
terremoti che, con puntuale periodicità, provano inutilmente a cancellare
un pezzo del passato.
Romani, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi hanno calpestato e violentato
questa terra divorandone l'opulenza naturale e ferendone lo spirito creativo,
ma vi hanno lasciato tracce notevoli, che, se per un verso sono da interpretare
come emblemi di dominazione e quasi di prevaricazione, per l'altro recano
il senso ed il fascino del nuovo e del meraviglioso se le riferiamo a quello
che doveva essere il contesto socio - ambientale, quando, ad esempio, furono
impiantati i castelli normano - svevi di Castrovillari, di Vibo Valentia (in
buono stato di conservazione) o di Nicastro (Oggi Lamezia Terme) di cui vediamo
gli imponenti ruderi nella parte nord - occidentale della città. Qui,
a Nicastro, quel che resta del vecchio castello svevo sembra guardarti con
malcelata aggressività e quasi con rancore. quelle pietre sembrano
racchiudere l'eco disperata dei lamenti di Enrico, il figlio ribelle di Federico
II, che il padre proprio in quelle mura fece rinchiudere per molti anni e
che, infine, dopo una disperata evasione, finì i suoi giorni poco più
a nord, precipitando in un profondo burrone, nei pressi dell'odierna Martirano
Lombardo.
Sembra balzarti incontro sornione e tranquillizzante, invece, il castello
aragonese di Castrovillari. Costruito per ordine del re Federico I d'Aragona
mantiene il tipico stile aragonese, con un bel mastio ed un veloce rincorrersi
di mensole e archetti nelle torri, il bel portale con lo stemma di casa Aragona
(uno scudo listato, sorretto da putti scolpiti ad altorilievo) e il suggestivo
ponte levatoio. Colpisce l'iscrizione latina sulla facciata, che ci spiega
le ragioni della fabbrica , "Ad continendos in fides cives" (Per
assicurarsi la fedeltà dei cittadini). L'epigrafe non va oltre e non
spiega, soprattutto, il ruolo del castello per mantenere i cittadini nella
fedeltà: Ma con un po' di fantasia!
Castelli e torri, certo. Strutture architettoniche imponenti, veri giganti
di pietra che raccontano la vita degli uomini del potere, storie di re e di
principi, di guerrieri e di schiavi, di splendori e di miserie. Come in tutto
il mondo.
Ma anche torri con funzioni di avvistamento del nemico, come le torri saracene,
che evidenziano una costante della storia calabrese: la paura per i pericoli
provenienti dal mare e la conseguente ostilità per il medesimo, tanto
da desertificare lunghissimi tratti di costa e da far pensare alla Calabria,
per moltissimo tempo, come ad una regione a vocazione isolazionista, chiusa
nelle sue montagne e nelle sue colline, come la videro i grandi viaggiatori
inglesi e tedeschi del XVIII secolo.
Non doveva essere davvero facile la vita per le popolazioni costiere dopo
che nel secolo XVI erano riprese le incursioni dei pirati. Le testimonianze
degli sconquassi causati da queste incursioni, testimoniate dai documenti
della storia, ancora oggi costituiscono il tema di tanti malinconici canti
popolari che rievocano lutti e tragedie familiari struggenti.
Il governo napoletano, sotto la cui giurisdizione si trovava in quel tempo
la Calabria (e che era destinata a protrarsi fino ai tempi moderni
.e
modernissimi!) pensò di rafforzare il sistema difensivo costiero ordinando
la costruzione di una serie di torri di avvistamento, collocate sul litorale
tirrenico e ionico. La distanza tra le torri doveva essere tale da assicurarne
la visibilità nella successione, per poter inviare le opportune segnalazioni.
I torrieri, a turno, se ne stavano lassù e guardavano verso il mare
pronti a dare l'allarme ai cavallai, cioè ai cavalieri che bivaccavano
a piedi della torre con i loro cavalli, pronti a balzare in sella e galoppare
verso i paesi dell'entroterra e dare l'allarme.
Di questo passato di paura restano tracce interessanti. Molte torri sono state
abbattute o non ne rimangono che poche tracce, ma la Torre di Santa Vennera,
la Torre Ruffa, nei pressi di Vibo Valentia, la Torre del castello di Roseto
e di Capo S, Giovanni, in provincia di Cosenza, con la poderosa ma agile architettura
raccontano ancora oggi storie straordinarie di dolore e di devastazione, di
violenze e di eroismi che non si leggono in alcun libro di storia.
Fatto sta che i litorali s'impoverirono sempre di più e furono abbandonati
dagli abitanti, che sempre più numerosi, affluirono nell'entroterra,
dove si sviluppò un sistema agricolo di tipo feudale, a cui si connette
l'avvento di un'economia asfittica, cristallizzata, destinata a durare secoli
e determinare le cause dell'arretratezza economica della regione. Ma si sviluppa,
in tal modo, anche un tipo di esistenza e di organizzazione sociale, alla
base di quella che qualcuno ha definito cultura subalterna e che io preferisco
chiamare cultura popolare.
Una singolare traccia di questa forma di vita e di organizzazione socio -
economica, la trovi a Zungri, piccolo centro in provincia di Vibo Valentia,
quasi al centro dell'acrocoro di Monte Poro, tra Vibo Valentia e Tropea. Qui,
in località Fossi, un'autentica città rupestre si confonde con
l'aspra natura circostante. Gli studiosi, numerosi e provenienti da tutta
l' Europa, che l'hanno visitata sono rimasti sbalorditi per ciò che
vi hanno trovato.
Gli studiosi del museo di Nicotera, che vi si sono soffermati a lungo, la
fanno risalire al X - XII secolo.
Si tratta di uno spettacolo eccezionale. Ti afferra una strana sensazione
se penetri in qualcuna di quelle 80 grotte, collegate tra di loro mediante
cunicoli. Ti guardi intorno e ti domandi che tipo di esistenza fosse quella
degli abitanti della città rupestre, adagiati in ambienti per lo più
monocellulari (ma ve ne sono anche composte da diversi ambienti e persino
con un piano superiore cui si accede per mezzo di una rozza serie di gradini
scavati nell'arenaria). Ma se osservi attentamente scopri che avevano pensato
ad un rudimentale sistema di aerazione per mezzo di un foro a tronco conico
nel centro della volta e a qualcosa che ricorda vagamente una finestra e persino
ad una rete idrica, costituita da un complesso sistema di canaletti e vasche
pronti ancora all'uso.
All'interno, piccole nicchie, incassi tracciati nella roccia e numerosi altri
segnali della presenza umana danno un'idea chiara di un'esistenza sospesa
tra la regressione e la conservazione. Forse ha ragione Solano, l'illustre
studioso nicoterese di archeologia medievale: le grotte furono realizzate
intorno al X secolo da religiosi in fuga dalla Sicilia o dall'Africa per sfuggire
alle invasioni barbariche.. Qualcuno ha denominato, tanto tempo fa, la città
rupestre villaggio degli Sbariati, cioè degli sbandati, dei fuggiaschi
per qualche forte preoccupazione. Ma forse è solo una leggenda. Una
delle tante che riempiono il percorso plurimillenario della Calabria, dove
realtà e leggenda si susseguono nel dipanarsi del tempo con una lentezza
senza esasperazione, che dà tutto il tempo necessario per capire e
vivere, se vuoi, il passato non per sfuggire al presente ma per svelare i
dettagli e arricchire la verità, che, si sa di dettagli e di aggiornamenti
continui ha bisogno per sfuggire alle semplificazioni atroci degli schemi,
che la deformano quando non la trasformano nel suo contrario.
Per questo ho preferito indicare qualche angolo sconosciuto della mia terra
invitando il lettore, se ne ha il tempo e la voglia, a visitarlo.Avrei potuto
parlarvi dei Bronzi di Riace, della Cattolica di Stilo, de duomo di Gerace,
degli scavi di Locri e di Sibari, della Reggio magnogreca o dei dipinti di
Mattia Preti custoditi nella sua natia Taverna, alle porte di Catanzaro.
Sono capolavori noti a tutti. Appartengono all'umanità: illustrano
la Calabria ed illustrano il mondo.
Ma quei piccoli tesori meno noti parlano solo della Calabria e fanno parte
del suo patrimonio artistico e culturale come quelli più famosi ed
importanti. Insieme, gli uni e gli altri sono come una finestra che consente
di volgere lo sguardo in epoche lontane per conoscere l'universo umano e sono
il nostro prezioso legame con il passato e la vita da cui veniamo.
E mi sembra che possa bastare. Ma a quanti vengono in Calabria dico: non sorprendetevi
per la natura dei suoi abitanti, cedevole in superficie, forte e dura nel
profondo, apparentemente indolente ma tanto avida della vita. Sorprendetevi
per quello che vi troverete, perché andandovene sentirete di possedere
un altro pezzo di verità che avete scoperto qui.
Giuseppe Chiaravalloti
Presidente della Regione Calabria